Il secondo appuntamento ci porta nella storia di Ilaria e Alessia e del loro papà. Entriamo in silenzio e ci poniamo in ascolto pronti a ricevere questo dono. Grazie di cuore!

Cosa significa per voi demenza?

La parola demenza, Alzheimer, fino al 2014 era solo una parola scritta nei libri, sentita in lontananza, usata per descrivere una condizione possibile certo, ma riservata agli anziani, e non era certo il caso della nostra famiglia.

Dal 2014 in avanti è diventata una realtà.

Demenza per noi significa dolore, impotenza ma anche senso di protezione, tenerezza, continuo cambiamento.

Significa mettere in discussione ogni tua certezza e provare ad adattarti a qualcosa che non hai scelto, ma che sta accadendo.

Significa anche fantasia nel creare soluzioni e pazienza nei confronti dei fallimenti.

Significa anche e soprattutto concedersi di essere fragili e essere clementi con sè stessi quando non ce la si fa. 

Chi ne soffre nella vostra famiglia?

Ne ha sofferto nostro padre, Giovanni. La diagnosi è arrivata nel 2014, aveva solo 61 anni. E’ stata inaspettata per molti motivi, perchè era giovane, sano, sportivo, assolutamente salutista. Non aveva mai assunto un farmaco in vita sua.

E’ purtroppo mancato dopo 5 anni, per un decorso molto rapido della malattia.

Come l’avete scoperto?

Non possiamo stabilire con certezza quanto tempo prima della diagnosi fossero iniziati i primi episodi di disattenzione, noncuranza, distrazione. Segni dapprima impercettibili sono diventati man mano più evidenti e troppo frequenti per poterli ignorare. 

All’inizio reagimmo con stupore, con qualche battuta, persino con l’ingenua irritazione di chi non poteva immaginare cosa si celasse dietro quelle prime difficoltà.

Inizialmente si credeva fosse un episodio depressivo ed abbiamo anche tentato la carta della terapia farmacologica, ma gli accertamenti successivi non hanno lasciato dubbi che si trattasse di Alzheimer in fase iniziale. 

Come vi siete sentite al momento della diagnosi? E ora?

Dopo la diagnosi i nostri stati d’animo si sono presto trasformati in sconforto, incredulità e paura: Come sarebbe cambiata la sua vita? La nostra vita? Come proteggerlo da ciò che stava accadendo?

L’istinto di protezione ha preso immediatamente il sopravvento sulle nostre incertezze, volevamo evitargli la sofferenza di una tale consapevolezza.  

La nostra famiglia si è stretta a doppio nodo attorno a lui, in modo da restituire per quanto possibile al quotidiano una parvenza di normalità. 

Abbiamo creato un nostro piccolo mondo, facendo da scudo ed evitando che si affacciasse sul ciglio del baratro di quanto sarebbe accaduto, nascondendo il nostro dolore dietro ad un sorriso ed accompagnandolo in questo nuovo percorso. 

Noi figlie e nostra madre abbiamo tessuto le trame della quotidianità per riempirgli le giornate, perchè tutto sembrasse normale, perchè non si annoiasse. 

Inutile dire che ci siamo sentite sole, stanche, impotenti e abbiamo versato le nostre lacrime senza esser viste, cercando di nasconderci anche l’un l’altra perché sapevamo che “l’unione fa la forza” e nessuna di noi voleva cedere per prima. 

Ora ci troviamo in una situazione diversa. Nostro padre è mancato un anno e mezzo fa ed è ancora molto faticoso parlarne, ma abbiamo cercato di elaborare il nostro lutto attaccandoci ai nostri ricordi positivi e stiamo cercando di rendergli omaggio con il progetto “Le cose che non sai”. E’ un progetto volto a sensibilizzare sull’argomento Alzheimer e a raccogliere fondi per l’Associazione Alzheimer Piemonte.

Abbiamo selezionato alcuni dipinti che nostro padre ha prodotto nel pieno della malattia e alcuni disegni tematici creati da noi due figlie, e abbiamo trasferito queste grafiche su prodotti venduti tramite il sito Redbubble con lo scopo di venderli e destinare i proventi all’Associazione Alzheimer Piemonte.

In più sui profili social Instagram e Facebook scriviamo della nostra esperienza e inseriamo degli interventi di divulgazione per portare alla luce il mondo sommerso di questa malattia, che di fatto è una malattia sociale.

È un progetto che ci permette di parlarne in maniera delicata e che ci offre una possibilità di “guarire” in quanto nucleo familiare. 

Cos’avete imparato dal prendervi cura del vostro familiare?

Abbiamo imparato che abbiamo bisogno gli uni degli altri. 

Che nulla può essere dato per scontato, che il tempo può sfuggire tra le dita ma che anche nella sofferenza si può trovare un angolo di luce.

Abbiamo imparato l’importanza del volersi bene, della presenza, degli abbracci sostituiti alle parole. 

Sei anche tu un caregiver? Cos’hai pensato e provato leggendo la storia di Ilaria e Alessia?

Scrivilo nei commenti!

Se vuoi condividere la tua storia non esitare a contattarmi!

A presto,

dott.ssa Nadia Zanardi

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